Con l’inizio dell’avvento la chiesa ci rivolge un richiamo molto forte: torna in te stesso, ricordati chi sei e cosa è davvero importante per la tua vita, risveglia nel cuore l’attesa di Cristo.
Il vangelo ci parla proprio dell’attesa come dell’atteggiamento più importante se vogliamo che la nostra vita sia autentica. Il Signore infatti è colui che è, che era e che viene; è il Dio che ha passione per le nostre esistenze, tanto da farsi nostro compagno di strada ogni giorno. Così è venuto duemila anni fa incarnandosi nell’uomo Gesù, viene ogni giorno nelle nostre vite, verrà alla fine dei tempi “a giudicare i vivi e i morti”, cioè a salvare in modo definitivo l’umanità intera. Ma se non abbiamo il cuore teso a questo annuncio, se in fondo siamo ripiegati sui nostri piccoli o grandi problemi, i nostri progetti, le preoccupazioni che comprensibilmente affollano la nostra mente non siamo in grado di fare spazio a lui. Cristo viene a bussare alla nostra porta, ma non riusciamo ad accorgercene, tutti presi dal frastuono in cui le nostre esistenze sono immerse. Proprio come ai tempi di Noè, come ci ricorda il vangelo di questa domenica: «prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti». L’avvertimento è chiaro: la vita la possiamo sprecare se non riponiamo la nostra speranza nel Signore che viene a darle senso. Ci condanniamo da soli all’insignificanza e alla superficialità se non abbiamo un cuore che cerca davvero la salvezza. Non si tratta ovviamente di rifugiarci in uno sterile misticismo, ma di fare della nostra vita quotidiana, con tutte le sue speranze e le sue fatiche, il terreno fertile in cui l’attesa del Salvatore apre il nostro cuore all’incontro salvifico con lui già in questa vita, in attesa dell’incontro pieno e definitivo che avverrà alla fine.
Don Davide
Pagina difficile e inquietante quella del Vangelo di questa domenica. Ma anche un immenso messaggio di consolazione di fronte a tutto il male che sembra dominare la storia dell’umanità. Ci vengono messe davanti agli occhi diverse immagini, una più terribile dell’altra: Gerusalemme distrutta, giusti perseguitati, falsi messia, terremoti, carestie, guerre, sconvolgimenti cosmici.
Proviamo a fare un po’ di chiarezza. Gesù non intende fare una cronaca della fine del mondo, ma usa delle immagini familiari a un’israelita di duemila anni fa. In quell’epoca si era infatti sviluppata in tante persone una visione apocalittica, cioè la convinzione che Dio stesse per intervenire nel mondo chiudendo una fase della storia per aprirne una totalmente nuova. Insomma uno sconvolgimento totale del mondo conosciuto e l’inizio una nuova era. Gesù pesca a piene mani da questo immaginario collettivo. E lo fa per dire che viviamo dentro una storia incompiuta e drammatica. Le cose vanno molto diversamente da come dovrebbero andare e così la storia appare molto spesso un tragico teatro di violenza, disordine, sopraffazione, ingiustizia. Pagina attualissima dunque.
Poi però Gesù introduce un “ma”: «Ma neppure un capello del capo andrà perduto». Cosa c’è di più insignificante di un capello del capo? E poi nella seconda parte del discorso (purtroppo non riportata nella liturgia di questa domenica) parla della venuta del Figlio dell’uomo alla fine della storia: «Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria … risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina». Questa storia così martoriata è nelle mani di Cristo. Lui è il salvatore, il Signore di ogni vita, di ogni storia e di tutta la storia. La nostra vita e quella di ogni uomo vanno verso Cristo. Il senso della storia è l’incontro pieno e definitivo con lui. In questo incontro tutto troverà salvezza, compimento e senso.
Don Davide
All’epoca di Gesù non tutti gli ebrei credevano che nell’aldilà ci fosse una vita degna di questo nome. Continuava ad avere un certo seguito l’idea che con la morte tutti – buoni e cattivi – finissero nello sheol, una sorta di regno dei morti in cui le persone si riducevano ad essere delle ombre di se stesse, figure evanescenti senza più speranza. Nell’episodio del vangelo di questa domenica Gesù rivela un’altra prospettiva sulla morte: essa è un passaggio verso la redenzione del nostro corpo, cioè della vita come l’abbiamo vissuta qui sulla terra. La nostra esistenza non sta correndo verso il nulla, non è destinata ad essere inghiottita dalle tenebre della morte. C’è una vita oltre la vita. Gesù la chiama risurrezione.
Ciò che risorgerà non è semplicemente “la nostra anima”. Gesù parla di resurrezione del corpo: risorgeremo proprio noi. Siamo infatti persone che hanno una storia, fatta di gioie, di sofferenze, di rapporti umani che fanno parte di noi; una storia fatta di speranze, attese, cadute, fallimenti, impegno per costruire qualcosa di bello… risurrezione vuol dire che tutto questo non va a finire nel nulla, ma Dio gli conferisce un valore eterno.
Come questo avverrà rimane un grande mistero, e non ha senso farsi prendere dall’ansia di dare risposte a questioni che riguardano il come e il quando della risurrezione. Rimane però questa parola di Gesù che deve diventare la roccia su cui poter costruire. Il Signore prende spunto dall’obiezione dei sadducei (la storiella della donna che va in sposa a sette mariti diversi perché le muoiono uno dopo l’altro) per insegnare che la nostra vita non è in balia di quella grande forza distruttrice che si chiama morte, destinata a spazzare via noi e tutti quelli che amiamo. C’è qualcuno che è più grande della morte. Lui non permetterà che la morte sia l’ultima parola su di noi, su coloro che amiamo, su ogni uomo che viene in questo mondo.
Don Davide