Un gruppo di greci saliti a Gerusalemme vuole incontrare Gesù. Forse non è un caso che si rivolgano a uno degli apostoli che porta un nome di origine greca (Filippo), che a sua volta chiede aiuto a un altro apostolo con un nome greco (Andrea). Il significato della scena è piuttosto chiaro: Cristo è il salvatore del mondo intero. E il mondo sta finalmente cominciando ad accorgersi di lui.
Ma a questo punto la reazione di Gesù è diversa da quella che ci si sarebbe potuti aspettare. Invece di precipitarsi a conoscere i greci, comincia a parlare del significato della sua morte. Il discorso culmina in una dei versetti più belli del vangelo di Giovanni: «E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me».
Gesù è venuto per salvare il mondo intero, e ciò avviene non attraverso un insegnamento morale o filosofico, ma con la morte in croce. Cioè attraverso il dono della sua vita. Gesù ama fino in fondo e dimostra così la passione che Dio ha per ogni essere umano di tutti i tempi.
È da lì, da quel suo essere “innalzato da terra”, che ha inizio un movimento che rinnova la storia, soprattutto per mezzo di tutti coloro che, uniti a lui e guidati dallo Spirito Santo, lo seguono sulla via della croce. È Gesù stesso a dircelo: «Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore». Il cristiano è una persona che, seguendo Cristo, impara a fare della sua vita un dono per il mondo.
Don Davide
L’inizio del vangelo di Marco contiene un annuncio dirompente. «Il Regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel vangelo». Si tratta di una parola rivolta a noi oggi, che chiede di essere presa molto sul serio. Cosa sta dicendo Gesù all’uomo di tutti in tempi? Cosa è questo Regno che è vicino (nel senso che sta arrivando e allo stesso tempo è già in mezzo a noi)? In che senso il cuore della buona notizia, a cui il Signore chiede di convertirsi, è questa misteriosa realtà a cui il vangelo di Marco richiama in continuazione?
Il Regno di Dio non si può spiegare con dei concetti, ma è una vita in cui si entra con tutto se stessi. Ecco perché Gesù userà le parabole per parlarne. Il Regno è il nostro mondo completamente rinnovato, una nuova creazione che con Cristo morto e risorto comincia a farsi spazio nella storia. Non in modo trionfante, non travolgendo di colpo il male e le contraddizioni, ma come un seme che feconda la realtà in cui viviamo. Un Regno che viene nel segno dell’umiltà, della piccolezza, perfino del nascondimento. Eppure una realtà capace di “far nuove tutte le cose”.
La seconda parte del vangelo di questa domenica ci dice una cosa importante. Gesù dopo aver annunciato il Regno, chiama delle persone a seguirlo e comincia a formare attorno a sé una comunità. Il Regno è anzitutto una questione di rapporti umani nuovi, un modo di stare insieme che diventa segno e strumento di unità di tutto il genere umano.
Don Davide
La prima lettura, del profeta Isaia, è un grande invito alla gioia e allo stesso tempo solleva tante domande per noi cristiani di oggi. Ci dice che il lieto annuncio viene portato ai miseri, che Dio stesso sta venendo nel mondo a soccorrere chi ha il cuore spezzato, a liberare chi è prigioniero, a riscattare gli schiavi. Il vangelo in fondo è solo questo. Non un sistema di dottrine e di leggi, a cui tante volte tendiamo a ridurlo, piuttosto la notizia di un Dio che non viene a giudicare il mondo ma a riconciliarlo con sé, un Dio a cui stiamo a cuore così come siamo e nonostante tutto.
Il vangelo di questa terza domenica di avvento è sulla stessa lunghezza d’onda. Il protagonista è Giovanni Battista, uno che non ha certo fatto sconti a coloro che lo ascoltavano. La sua predicazione aveva messo il dito nella piaga dicendo senza mezze misure che Israele aveva fallito, preso strade sbagliate e ormai non aveva più alcuna possibilità di riprendersi. Sembra la fotografia dell’umanità di oggi. Allo stesso tempo Giovanni annuncia che sta arrivando nel mondo qualcuno di infinitamente più grande di lui che avrebbe portato pace, perdono, salvezza. In altre parole, annuncia un nuovo inizio. È ciò di cui il mondo, noi per primi, ha bisogno anche oggi.
In questo senso l’ordinazione diaconale di Andrea, seminarista della nostra parrocchia, è un meraviglioso segno del fatto che Dio tocca anche oggi il cuore delle persone e le chiama ad essere protagoniste di un annuncio che continua a percorrere le strade del mondo.
Don Davide
“Ormai solo un Dio ci può salvare” diceva il grande filosofo Martin Heidegger – non proprio un uomo di chiesa – alla fine della sua vita. Viviamo in tempi strani, tempi bui secondo tanti osservatori. L’umanità ha fatto enormi passi avanti in molti campi, eppure mai come oggi c’è un vuoto di speranza di fronte alla vita. Ripiegati sul presente, spesso il futuro ci appare più come una minaccia che come una promessa. Uno dei segni più evidenti di questa mancanza di speranza è che le persone mettono al mondo sempre meno figli, e in questo la Sardegna è all’ultimo posto in Italia. L’ultimo rapporto Censis, di qualche giorno fa, rivela che continuando così, nel 2040 solo una coppia su 4 avrà figli.
In questo clima di sfiducia noi cristiani abbiamo innanzitutto il compito di essere annunciatori della buona notizia: Dio, nonostante tutto, non ci abbandona e continua a venire nella nostra storia per portare luce, pace, speranza. Come Giovanni Battista, siamo chiamati ad essere quella voce che, nei deserti del mondo, nella steppa che sembra avanzare e sottrarci spazi vitali, si fa testimonianza autorevole e credibile della presenza di Cristo, Dio che si fa vicino alla nostra vita donandole un orizzonte nuovo.
Don Davide
L’ultima domenica dell’anno liturgico si festeggia Cristo Re dell’Universo. Ci viene ricordato che quel Gesù di cui lungo tutto l’anno abbiamo contemplato i misteri della vita, è anche il Signore, colui che sta sopra qualunque potere di questo mondo e tiene in mano le redini della storia.
Si può credere davvero a tutto questo? Non abbiamo troppo spesso l’impressione che il mondo sia piuttosto guidato e governato da ben altri poteri? Perché diciamo che Cristo è il Re dell’Universo se poi sembrano avere la meglio persone e potenze che invece del bene fanno prevalere l’egoismo, l’odio, la violenza?
La liturgia di questa domenica ci aiuta a rispondere mostrandoci un tipo di regalità radicalmente diversa da quella dei potenti di questo mondo. Gesù si rende presente nella storia non come un potere invincibile che mette a posto le cose annullando la nostra libertà, ma come colui che vuole rinnovare il mondo attraverso la nostra libertà.
San Paolo nella seconda lettura ci dice che verrà un momento in cui il male e la morte saranno sconfitti per sempre, ma che nel frattempo c’è una lotta drammatica contro il male che è in noi e fuori di noi. Una lotta in cui Cristo usa le armi della mitezza, dell’umiltà, della pazienza. L’immagine del buon pastore di cui parla la prima lettura tratta dal libro di Ezechiele ci parla di questo stile di Gesù, così attento al cammino umano di ciascuno di noi. Non una ricerca del potere e del consenso ma una passione per la felicità della singola persona.
Cristo è il Re, ma noi non siamo i suoi sudditi. Ci chiama a regnare con lui secondo il suo stile, mettendoci al servizio gli uni degli altri. Soprattutto dei più bisognosi, come ci ricorda il vangelo di questa domenica. Su questo si giudicherà la riuscita o il fallimento della nostra vita.
Don Davide
La parabola che ascoltiamo questa domenica è tratta dal capitolo che precede il racconto della passione. Il brano parla proprio di un signore che sta per partire per un viaggio da cui tornerà dopo molto tempo. Anche Gesù con la sua passione e morte sta per compiere un lungo viaggio, da cui un giorno farà ritorno. In mezzo sta il tempo dell’attesa, quello che stiamo vivendo noi. È vero infatti che lui ci ha promesso di essere con noi tutti i giorni. Ma non è estranea al Nuovo Testamento l’idea di una distanza che ancora c’è tra noi e lui, una condizione di esilio che viviamo lontano da lui in questa terra.
La parabola mette l’accento proprio su questo tempo di mezzo che intercorre tra la partenza del padrone e il suo ritorno. Quest’ultimo prima di partire distribuisce le sue immense ricchezze ai servi, dando a ciascuno uno o più talenti. Si tratta di una ricchezza che deve essere trafficata e fatta fruttare.
Gesù insegna che ci verrà chiesto conto di come abbiamo usato i talenti che Dio ci ha dato. Ma sarebbe fuorviante pensare che questi talenti siano semplicemente le doti che abbiamo, le qualità che ci rendono naturalmente bravi in qualcosa. Cristo non vuole da noi qualcosa, non vuole “risultati”, vuole il nostro cuore. L’enorme ricchezza che deve portare frutto è la nostra stessa vita, così come è, magari piccola e includente ai nostri occhi ma, a guardare più in profondità, anche piena di bene, ricca dei nostri tentativi e della nostra lotta per affermare un senso per noi e per il mondo. Seguire Cristo ogni giorno e offrirgli la nostra vita così come è perché il suo regno si realizzi: questo è il vero frutto che lui si attende da noi. Chi invece vive solo per se stesso, per la propria tranquillità o il proprio tornaconto non porta frutto e spreca la sua vita.
Don Davide